INSUFFICIENZA DELLE POLITICHE KEYNESIANE E PIANO NAZIONALE DI RIPRESA E RESILIENZA (PNRR 2021-2026)

Giovanni Scanagatta, Professore di Politica economica e monetaria all’Università di Roma

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) rappresenta una grande occasione   di crescita e sviluppo per il nostro Paese. Esso costituisce un banco di prova per misurare la nostra capacità di spendere bene le notevoli risorse messe a disposizione dall’Unione Europea.

Il PNRR riguarda il periodo 2021-2026 e colpisce quindi subito la minore durata rispetto, ad esempio, allo Schema Vanoni che copriva 10 anni, certamente più adeguata trattandosi di interventi di tipo strutturale dal lato dell’offerta.

Il contesto dello Schema Vanoni (non Piano Vanoni) era forse più favorevole a causa di una favorevole combinazione tra imprese pubbliche e imprese private, nel rispetto rigoroso delle regole dell’economia di mercato come si può vedere nella Conferenza di Pasquale Saraceno presso la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo nel 1957. Purtroppo, il rispetto di tali regole di mercato è venuto poi meno, soprattutto con la parte terminale con il sistema delle Partecipazioni Statali.

E in tutto questo hanno certamente influito le modalità con cui si sono realizzati i processi di privatizzazione sia delle imprese pubbliche che del sistema bancario. Una migliore combinazione tra imprese pubbliche e imprese private rispetto a quella di cui disponiamo, potrebbe forse favorire una più efficace realizzazione degli obiettivi del PNRR che sono di tipo strutturale e di lungo periodo.

Si tratta delle tre condizioni indicate nella Conferenza del 1957 d Pasquale Saraceno e che è utile ricordare: a) le aziende controllate dallo Stato devono operare su un piano di parità con le aziende gestite dai privati; b) ogni azienda controllata dallo Stato deve godere un’assoluta autonomia economica e finanziaria, così che sia possibile valutarne i risultati economici e rendersi conto del credito che essa merita sul mercato; c) l’assunzione di attività industriali da parete dello Stato deve avere carattere temporaneo, nel senso che il controllo delle imprese deve passare all’iniziativa privata quando l’esercizio dell’azienda controllata non sia utile ai fini dell’ulteriore processo di sviluppo.

Il punto più discutibile delle privatizzazioni riguarda senz’altro il sistema bancario, indispensabile per sostenere i processi di accumulazione e sviluppo in un’ottica di lungo periodo, soprattutto con riferimento alle piccole e medie imprese che pesano molto di più in Italia rispetto agli altri Paesi dell’Unione Europea.

Basti pensare all’errore della soppressione del sistema degli Istituti di Credito Speciale e, in particolare, ai Mediocrediti Regionali a medio termine. Tali istituti erano abilitati ad operare con il Mediocredito Centrale che provvedeva a rifinanziarli attraverso diverse forme tecniche e a consentire il credito agevolato a favore delle piccole e medie imprese. Si trattava di un sistema che ha operato molto bene per sostenere i processi di accumulazione e sviluppo delle piccole e medie imprese negli anni del “miracolo economico” e negli anni successivi, fino all’entrata in vigore della nuova legge bancaria di inizio 1994, in applicazione delle direttive comunitarie.

L’abbandono drastico della legge bancaria del 1936, basata sul principio della specializzazione temporale e funzionale degli intermediari finanziari, per andare verso il modello della banca universale, si è rivelato non vincente per il nostro sistema economico basato sulle piccole e medie imprese, espressione della vitalità e della creatività dei nostri territori, anche sotto l’aspetto del tessuto sociale come fattore di competitività. I Mediocrediti Regionali costituivano l’importante anello di congiunzione tra il centro e i territori, per l’offerta di adeguate risorse finanziarie in termini di disponibilità e di costo per l’accumulazione e lo sviluppo delle piccole e medie imprese. Le più danneggiate dal nuovo sistema sono state le banche di credito cooperativo, molto legate al territorio e alla imprenditoria locale, anche per loro oggettivi errori sul piano strategico e gestionale.

La privatizzazione del sistema bancario italiano, con la distruzione del sistema precedente basato sulle banche e sugli istituti di credito speciale, non ha certamente favorito i processi di accumulazione e sviluppo e di aumento della produttività di cui aveva assoluto bisogno l’Italia per competere nel nuovo scenario dell’euro.       

Il PNRR prevede per l’Italia 222,1 miliardi di euro di investimenti complessivi, di cui 191,5 miliardi di risorse europee. Queste ultime sono costituite da 68,9 miliardi a fondo perduto e 122,6 miliardi sotto forma di prestiti. Vanno inoltre considerati 30,6 miliardi rivenienti dal Fondo complementare con risorse italiane. Dobbiamo subito notare che le risorse a debito per l’Italia sono proporzionalmente superiori a quelle degli altri Paesi dell’Unione Europea. Una posizione sfavorevole, partendo l’Italia da un elevato rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo.

Nella Premessa del Piano sono indicati gli impatti macroeconomici del PNRR con gli scostamenti rispetto allo scenario base. Nel 2026, l’anno terminale del Piano, il prodotto interno lordo sarà di 3,6 punti percentuali più alto rispetto all’andamento tendenziale. Sempre nell’anno terminale, i consumi privati dovrebbero essere superiori dell’1,9%, gli investimenti totali del 10,4%, le importazioni del 4%, le esportazioni del 2,7%. Nell’ultimo periodo dell’orizzonte temporale 2024-2026, l’occupazione dovrebbe essere più alta di 3,2 punti percentuali rispetto allo scenario base.  

Il PNRR si articola in sei Missioni, che corrispondono alle sei grandi aree di intervento previste dal Next Generation EU, e 16 Componenti. Le Missioni sono le seguenti: digitalizzazione e innovazione; rivoluzione verde e transizione ecologica; infrastrutture per la mobilità sostenibile; istruzione, formazione e ricerca; equità e inclusione sociale e territoriale; salute.

La Missione 1 “Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura” sostiene la transizione digitale del Paese e la modernizzazione della Pubblica amministrazione, delle infrastrutture di comunicazione e del sistema produttivo. L’obiettivo è garantire la copertura di tutto il territorio con la banda ultra larga, migliorare la competitività delle filiere industriali, agevolare l’internazionalizzazione delle imprese. Inoltre, si investe sul rilancio di due settori chiave per l’Italia: il turismo e la cultura.

La Missione 2 “Rivoluzione verde e transizione ecologica” ha la finalità di realizzare la transizione verde ed ecologica dell’economia italiana, coerentemente con il Green Deal europeo. Prevede interventi per l’agricoltura sostenibile e l’economia circolare, programmi di investimento e ricerca per le fonti di energia rinnovabili, lo sviluppo della filiera dell’idrogeno e la mobilità sostenibile. Inoltre, prevede azioni volte al risparmio dei consumi di energia tramite l’efficientamento del patrimonio immobiliare pubblico e privato, nonché iniziative per il contrasto al dissesto idrogeologico, la riforestazione, l’utilizzo efficiente dell’acqua e il miglioramento della qualità delle acque interne e marine.

La Missione 3 “Infrastrutture per una mobilità sostenibile” ha l’obiettivo di rafforzare ed estendere l’alta velocità ferroviaria tradizionale e di potenziare la rete ferroviaria regionale, con una particolare attenzione al Mezzogiorno. Promuove la messa in sicurezza e il monitoraggio digitale dei viadotti e ponti stradali nelle aree del territorio che presentano maggiori rischi e prevede investimenti per un sistema portuale competitivo e sostenibile dal punto di vista ambientale per sviluppare i traffici collegati alle grandi linee di comunicazione europee, nonché per valorizzare il ruolo dei porti del Mezzogiorno.

La Missione 4 “Istruzione e ricerca” pone al centro i giovani, affrontando uno dei temi strutturali più importanti per rilanciare la crescita, la produttività, l’inclusione sociale e la capacità di adattamento alle sfide tecnologiche e ambientali del futuro. Con questa Missione si punta a garantire le competenze e le capacità necessarie con interventi sui percorsi scolastici e universitari. Viene sostenuto il diritto allo studio e accresciuta la capacità delle famiglie di investire nell’acquisizione di competenze avanzate. Si prevede anche un rafforzamento dei sistemi di ricerca di base e applicata e nuovi strumenti per il trasferimento tecnologico.

La Missione 5 “Inclusione e coesione” si focalizza sulla dimensione sociale e spazia dalle politiche attive del lavoro, con focus sul potenziamento dei Centri per l’impiego e del Servizio civile universale, all’aggiornamento delle competenze, fino al sostegno dell’imprenditoria femminile. Sono previste misure per rafforzare le infrastrutture sociali per le famiglie, le comunità e il terzo settore, inclusi gli interventi per la disabilità e l’housing sociale. Ci sono inoltre interventi per la coesione territoriale, che comprendono gli investimenti per la Strategia nazionale per le aree interne e quelli per le Zone Economiche Speciali (ZES) e sui beni sequestrati e confiscati alla criminalità.

La Missione 6 “Salute” parte dall’assunto che la pandemia da Covid ha confermato il valore universale della salute come bene comune, la sua natura di bene pubblico fondamentale e la rilevanza macroeconomica dei servizi sanitari nazionali. Si focalizza sugli obiettivi di rafforzare e ammodernare la rete territoriale e ammodernare le dotazioni tecnologiche del Servizio Sanitario Nazionale con il rafforzamento del Fascicolo sanitario elettronico e lo sviluppo della telemedicina. Inoltre, si sostengono le competenze tecniche, digitali e manageriali del personale del sistema sanitario, oltre a promuovere la ricerca scientifica in ambito biomedico e sanitario.

Le sei Missioni e le sedici Componenti del PNRR non sono poche se si pensa alla legge di Pareto dell’80/20%. Tale legge afferma che il 20% delle cause determina l’80% degli effetti. Sarebbe stato quindi necessario concentrare gli sforzi su un numero più limitato di Missioni, indirizzando le risorse su pochi obiettivi strategici. I problemi che sono sorti nella fase di applicazione del PNRR confermano queste considerazioni. Ciò è stato effettuato nel corso della revisione del PNRR proposta dallo Stato Italiano e successivamente approvata dalla Commissione dell’Unione Europea.    

Il PNRR costituisce anche una grande occasione per il Mezzogiorno e per la ripresa del processo di convergenza con le aree più sviluppate del Paese. Tra il 2008 e il 2018, la spesa pubblica per investimenti nel Mezzogiorno si è più che dimezzata ed è passata da 21 a poco più di 10 miliardi di euro. Il Piano punta ad invertire queste tendenze investendo il 40% delle risorse complessive nel Mezzogiorno. Ma, a questo riguardo, sembrano condivisibili le critiche di Viesti (2021) al PNRR. Si tratta del dibattito praticamente inesistente, ai diversi livelli, sul PNRR, a differenza di quello che è avvenuto ad esempio in Portogallo. Inoltre, il 40% delle risorse destinate al Mezzogiorno (circa 80 miliardi di euro) non trova facile riscontro nelle singole voci di investimento. E’ difficile poi distinguere tra rifinanziamenti di vecchi progetti e finanziamenti di nuovi progetti. Solo in fase di revisione del PNRR si è assistito ad certo dibattito, sollevato dalle proposte del Governo Italiano alla Commissione Europea.                         

I problemi che sono sorti nella fase di applicazione del PNRR confermano queste considerazioni. I rischi di interventi a pioggia non sono bassi, con grande peso della burocrazia, con la conseguente incapacità di rimuovere i nostri mali strutturali che si trascinano da troppi anni, per passare ad un nuovo modello di sviluppo sostenibile, competitivo e inclusivo. La revisione del PNRR cerca di ridurre questi rischi.

Alla luce dell’analisi che abbiamo effettuato, nasce spontanea una domanda. Nell’attuale mondo che viviamo è più importante la microeconomia o la macroeconomia? O è necessario considerarle tutte e due insieme, in una visione di integrazione? 

La risposta a questa domanda porta naturalmente a sottolineare l’attualità o l’inattualità di Keynes e del pensiero keynesiano.  Possiamo tuttavia dire senza ombra di dubbio che per capire le attuali dinamiche economiche mondiali non bisogna sottovalutare l’importanza della microeconomia rispetto alla macroeconomia keynesiana. Basti pensare solo all’importanza delle forme di mercato come evidenziato dai grandi oligopoli delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Questi, attualmente, realizzano insieme una capitalizzazione di borsa superiore ai 10 mila miliardi di dollari. Tale valore oltrepassa la somma dei prodotti interni lordi di Germania, Francia e Italia. I loro fatturati crescono in modo esponenziale rispetto al numero degli utenti, come pure gli utili che arrivano a quote eccezionalmente elevate del fatturato. Conseguentemente, molto elevato risulta l’autofinanziamento, tenendo conto della distribuzione dei dividendi e degli effetti sulle quotazioni di borsa. La potenza di tali oligopoli mondiali condiziona sempre di più non solo i comportamenti dei singoli con una limitazione delle loro libertà di scelta comprese quelle politiche, ma anche il potere degli Stati. Si tratta del capitalismo digitale che mette a rischio le libertà dell’uomo.  

Come ci ricorda Sylos Labini, la teoria neoclassica è in fondo il paradigma dominante nella teoria economica. Ma il paradigma neoclassico è refrattario alla teoria dello sviluppo: da qui il profondo senso di insoddisfazione da cui gli economisti contemporanei tentano di uscire con grande difficoltà perché attratti dalla bellezza formale dei modelli che non ci aiutano a capire a fondo quello che sta succedendo nel mondo di oggi e gli sviluppi futuri e, quindi, quello che capiterà alle nostre giovani generazioni.

Si tratta essenzialmente di modelli dei grandi aggregati ispirati al pensiero keynesiano che non catturano tutte le modifiche che avvengono nei settori economici sotto l’impulso della velocità del progresso scientifico e tecnico. Da qui la fondamentale insufficienza delle politiche keynesiane del controllo della domanda aggregata per lo sviluppo del reddito e dell’occupazione, sostenute soprattutto dagli economisti anglo-americani.

Per uno sviluppo economico sostenibile e di coesione sociale sono indispensabili anche le politiche dell’offerta e microeconomiche, come in fondo era avvenuto con lo Schema Vanoni che ha accompagnato e sostenuto il “miracolo economico” italiano.         

Roma, gennaio 2024