L'integrazione economica tra Italia e Germania: la crescita trainata dalle esportazioni
La Germania è il primo partner commerciale dell’Italia. Nel 2017 le esportazioni italiane verso la Germania hanno raggiunto 56 miliardi di euro, pari al 13% del totale. Al primo posto delle nostre esportazioni verso il mercato tedesco figurano i macchinari e le attrezzature con un peso del 14,5%; seguono i prodotti della metallurgia con il 9,8%, i prodotti chimici con il 7,7%, i prodotti alimentari con il 6,8%, i prodotti in metallo esclusi macchinari e attrezzature con il 6,6%. Da evidenziare anche il peso dei prodotti farmaceutici di base e preparati farmaceutici con il 4,5%. Queste sei voci incidono complessivamente per il 50% del totale delle esportazioni italiane verso la Germania.
Negli ultimi quindici anni l’incidenza delle esportazioni totali italiane sul prodotto interno lordo (PIL) ha mostrato prima un andamento crescente fino al 2008, raggiungendo il massimo del 30%. Dopo l’inizio della crisi le esportazioni hanno mostrato un andamento calante rispetto al PIL fino al 19,6% del 2016. Dal 2017 inizia un’inversione di tendenza con il 21,6%. Pertanto, prendendo a riferimento il punto di massimo dell’incidenza delle nostre esportazione sul PIL del 2008, pari al 30%, si evidenzia una perdita rispetto al PIL nel 2017 pari a 168 miliardi di euro di esportazioni. Si tratta di una perdita pari all’8,4% del PIL del 2017, corrispondente ad almeno 800 mila posti di lavoro. E ciò senza tener conto degli effetti moltiplicativi delle esportazioni rispetto al reddito di cui si parlerà fra poco.
Si è effettuato un esercizio per valutare gli effetti della crescita delle esportazioni su quella del PIL dell’Italia. I risultati, con riferimento al periodo che va dal 2000 al 2017, mostrano una elasticità del PIL rispetto alle esportazioni pari a 0,42. Ciò significa che, in media, un aumento dell’1% delle esportazioni conduce ad una crescita del PIL pari allo 0,43%. Il moltiplicatore stimato delle esportazioni rispetto al reddito è intorno a 1,5. Ciò significa che ogni miliardo di euro in più di esportazioni porta a 1,5 miliardi in più di PIL, cioè una maggiore occupazione di quasi 10 mila persone.
Ecco un semplice esempio per mostrare il moltiplicatore nel caso di economia aperta.
Partiamo dal bilancio economico nazionale. Le risorse sono rappresentate dal PIL e dalle importazioni M. Gli impieghi sono costituiti dai consumi C, dagli investimenti I e dalle esportazioni X. Trascuriamo per semplicità la spesa pubblica e i tributi.
Possiamo pertanto scrivere l’uguaglianza tra risorse e impieghi nel modo seguente:
PIL + M = C + I + X
Poniamo poi i consumi legati al reddito secondo la propensione marginale al consumo c e le importazioni dipendenti dal reddito in base alla propensione marginale all’importazione pari a m. Possiamo pertanto scrivere:
PIL + m PIL = c PIL + I + X
Gli investimenti e le esportazioni rappresentano la parte esogena della domanda. Dopo una semplice trasformazione, possiamo scrivere:
PIL (1 – c + m) = I + X e quindi:
PIL = 1/1-c+m * (I+X)
Ponendo c uguale a 0,80 e m uguale a m a 0,30 otteniamo il moltiplicatore degli investimenti e delle esportazioni:
PIL = 1/0,50 * (I+X)
Supponiamo infine investimenti esogeni paria a 20 ed esportazioni esogene uguali a 30. Otteniamo un reddito uguale a 100, con un moltiplicatore degli investimenti e delle esportazioni pari a 2 e un pareggio della bilancia commerciale.
Nel nostro esempio numerico, risorse e impieghi in equilibrio sono i seguenti:
100 + 30 = 80 + 20 + 30
L’ultima parte della scheda viene dedicata all’integrazione economica tra l’Italia e la Germania attraverso le esportazioni. Si deve subito precisare che le esportazioni tedesche e quelle italiane crescono insieme perché una significativa quota delle imprese italiane sono fornitrici delle imprese tedesche attraverso intensi rapporti di fornitura. Ad esempio, un’automobile tedesca viene in parte significativa costruita con componenti prodotti nel nostro Paese da una miriade di piccole e medie imprese, ubicate soprattutto nel Nord dell’Italia e, in particolare, in Lombardia e in Veneto. Pertanto quando la Germania esporta più automobili anche le imprese italiane esportano di più perché forniscono i componenti che entrano nelle automobili tedesche. E viceversa quando la Germania esporta meno automobili. Questa è l’integrazione tra i due Paesi che tende ad accomunarli nelle diverse fasi del ciclo economico. Quindi una parte significativa delle esportazioni italiane verso la Germania non sono in concorrenza con le esportazioni tedesche ma complementari.
E’ questo il motivo per cui appare strettissima la relazione positiva tra l’incidenza delle esportazioni italiane sul PIL e l’incidenza delle esportazioni tedesche sul PIL. La variabile indipendente è rappresentata dalle esportazioni tedesche sul PIL, mentre quella dipendente è rappresentata dall’incidenza delle esportazioni italiane sul PIL. La stima econometrica effettuata dal 2000 al 2017 mette in evidenza che, in media, ad un aumento dell’1% del rapporto tra esportazione tedesche e PIL corrisponde un aumento dello 0,52% dell’incidenza delle esportazioni italiane sul PIL.
Riportiamo qui di seguito il grafico che illustra l’andamento del rapporto effettivo tra esportazioni e PIL dell’Italia e quello stimato sulla base del rapporto tra esportazioni tedesche e PIL. I due andamenti sono praticamente coincidenti e ciò dimostra la stretta dipendenza delle esportazioni italiane sul PIL dall’andamento del rapporto delle esportazioni tedesche e PIL. I destini economici di Germania e Italia sono fortemente legati gli uni agli altri.
Questa stretta integrazione economica, via esportazioni, tra Germania e Italia ha molte conseguenze. Se ne sottolineano alcune.
Primo, la Germania tende a imporre ai propri fornitori italiani modelli organizzativi e gestionali delle imprese in linea con le proprie visioni, soprattutto quando è in atto una radicale salto tecnologico con la digitalizzazione di tutti i processi produttivi come sta avvenendo attualmente con Industria 4.0.
Secondo, aumenta la responsabilità verso i fornitori come stakeholder, dando una dimensione diversa alla responsabilità sociale d’impresa con riferimento agli altri stakeholder: dipendenti, comunità locali, istituzioni locali, clienti, azionisti, ambiente. Questa visione allargata della responsabilità sociale dell’impresa è stata messa bene in evidenza da Benedetto XVI nella Caritas in veritate.
Terzo, si accrescono notevolmente le possibilità di acquisizione da parte delle imprese tedesche delle imprese italiane che sono loro fornitrici.
Secondo dati Istat relativi al 2015, le imprese a controllo estero in Italia sono aumentate di 483 unità rispetto all’anno precedente, raggiungendo il numero di oltre 14 mila aziende. La Germania rappresenta il secondo paese con il più elevato numero di imprese a controllo estero in Italia, dopo gli Stati Uniti. Sono infatti 1.955 le imprese a partecipazione tedesca, che assorbono quasi 170.000 addetti e sono distribuite principalmente sulle aree economicamente più sviluppate (oltre un terzo nella provincia di Milano e un ulteriore 33% tra Piemonte, Emilia-Romagna, Veneto e Lazio).
Dal punto di vista geografico il 50% del fatturato delle aziende a controllo tedesco viene generato in Lombardia e il 18% in Veneto. Nella Regione Veneto ci sono 156 imprese tedesche, di cui 59 a Verona, la porta dell’Italia verso la Germania, 32 a Padova, 28 a Vicenza, 21 a Treviso, 13 a Venezia, 2 a Rovigo, 1 a Belluno.
Quarto, sul piano economico la parte Nord e Nord-Est dell’Italia è sempre più attratta verso il Nord Europa e, in particolare, verso la Germania, con la crescita delle istanze da parte delle Regioni del Nord e, in particolare, della Lombardia e del Veneto di una graduale autonomia, come del resto è già avvenuto con il referendum. Da questo punto di vista, era certamente più realistica l’idea di Antonio Rosmini di una federazione di Stati italiani piuttosto che uno Stato fortemente centralizzato sorto con l’unificazione del 1861. Su questo terreno, la partita è completamente aperta.
Quinto, l’accelerazione del progresso scientifico e tecnico e la globalizzazione che rivoluzionano il modo di fare impresa e il mercato del lavoro, richiedono una incisiva politica industriale e una forte politica economica estera che praticamente non esistono nel nostro Paese, a parte alcuni timidi tentativi fatti qualche anno fa con il decreto Industria 4.0.
Le nostre imprese sono in ritardo nel passaggio all’economia digitale e strumenti come la Simest e la Sace per il sostegno delle esportazioni a pagamento differito, per le partecipazioni al capitale di rischio e per i finanziamenti per l’internazionalizzazione incidono pochissimo sul nostro export. La punta degli interventi si registra nel 2008 con 236 operazioni e 5,9 miliardi di euro ci credito capitale dilazionato, pari all’1,2% delle esportazioni totali. L’incidenza scende a meno della metà negli anni successivi. Si stima che le nostre imprese ricorrono per meno del 50% ai servizi di Simest e Sace rispetto alla media degli altri Paesi europei.
Comitato Tecnico Scientifico dell'Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti (UCID)