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Debito e deflazione: la trappola dell'unione europea

Debito e deflazione: la trappola dell'unione europea

Nel 1933 l’economista americano I. Fisher ha scritto un importante contributo su debito e deflazione. Si afferma che la deflazione mette sempre più in crisi coloro che sono indebitati, privati o Stato, e ha effetti nefasti sullo sviluppo del reddito e quindi sull’occupazione. La deflazione aumenta il valore reale del debito e ne rende sempre più difficile il rimborso. Inoltre rinvia la domanda da parte dei consumatori e degli investitori, in attesa di continue diminuzione dei prezzi. Effetti opposti esercita un adeguato tasso di inflazione, riducendo il valore reale del debito e stimolando la domanda di beni di consumo e di investimento e quindi il reddito e l’occupazione.

La teoria debito-deflazione delle grandi depressioni di Fisher è un utile strumento per interpretare la crisi decennale che ha colpito l’economia mondiale dal 2008 e, in particolare, l’Unione Europea con l’adozione della moneta comune. In effetti l’euro si è collegato ad una grande deflazione, con variazioni negative del livello generale dei prezzi e solo recentemente con un tasso di inflazione comunque al di sotto del 2%. Ciò ha colpito soprattutto i Paesi con debito pubblico più elevato come l’Italia, con rapporti rispetto al prodotto interno lordo (PIL) superiori al 130%.

I vincoli di finanza pubblica di Maastricht si sono rivelati, soprattutto per l’Italia e per gli altri Paesi del Sud Europa, come una specie di trappola imposta dall’Unione Europea per lo sviluppo e per l’occupazione.

Prendiamo ad esempio il rapporto tra debito pubblico e PIL che non dovrebbe superare il 60%. L’Italia ha un valore superiore al 130% e ci si chiede se la stabilizzazione e la successiva riduzione dovrebbe avvenire: a) con una riduzione del debito pubblico; b) con un aumento del PIL nominale; c) con una combinazione delle misure a) e b). Alcuni sostengono la prima via e altri la seconda.

La prima via è certamente deflazionistica, sacrificando la crescita del reddito e dell’occupazione. Essa traduce in pratica la trappola imposta dall’Unione Europea a Paesi come l’Italia.

debito pubblico

La via più corretta è la seconda, con politiche tese a favorire la crescita del reddito in termini reali e un certo aumento del livello generale dei prezzi. Solo in questo modo è possibile ridurre il tasso di disoccupazione, in particolare quello giovanile. Un certo aumento del livello generale dei prezzi sostiene la domanda dei beni di consumo e dei beni di investimento e quindi la crescita del reddito e dell’occupazione. E’ La strada suggerita da Fisher in applicazione della sua teoria debito-deflazione delle grandi depressioni.

Facciamo un esempio riguardante il caso Italia. Supponiamo che fosse possibile per un triennio accrescere il PIL in termini reali del 5% all’anno, come era ai tempi del miracolo economico, e il livello generale dei prezzi del 5% annuo. Sotto tali ipotesi, dopo un triennio il rapporto tra debito pubblico e PIL scenderebbe dal 130 al 97%. Per ottenere lo stesso risultato in tre anni con la riduzione del debito pubblico sarebbe necessario imprimere all’economia italiana una tremenda deflazione, con una caduta catastrofica del PIL e un aumento insopportabile del tasso di disoccupazione.

Le considerazioni sopra esposte, alla luce della teoria di Fisher, suggeriscono che occorre assolutamente rompere la trappola in cui l’Unione Europea ha fatto cadere Paesi come l’Italia e, in generale, i Paesi del Sud Europa. E questo per lo stesso interesse ed il futuro dell’Unione Europea e della stessa moneta unica che altrimenti non potrà tenere assieme Paesi troppo diversi. Si tratta quindi della sostenibilità dell’euro nel lungo periodo.

Un grande indicatore della politica deflazionistica condotta dall’Unione Europea è costituito dall’enorme e crescente avanzo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti tedesca. Tale avanzo è vicino al 10% del PIL e e ammonta pertanto a quasi 400 miliardi di euro. Esso corrisponde all’eccesso dei risparmi sugli investimenti tedeschi. Per pareggiare le partite correnti della bilancia dei pagamenti della Germania occorrerebbe incrementare le importazioni tedesche di 400 miliardi di euro, con un forte effetto di traino sulle economie dell’Unione Europea in termini di crescita del reddito e dell’occupazione. La cifra di 400 miliardi di euro corrisponde agli investimenti previsti dal noto piano Juncker per il rilancio dello sviluppo e dell’occupazione nell’Unione Europea. Ma tale piano, come si sa, è miseramente fallito. Si tratta di investimenti, soprattutto in infrastrutture, che avrebbe potuto realizzare la BEI (Banca Europea degli Investimenti) grazie all’emissione di obbligazioni che potevano essere acquistate dalla Banca Centrale Europea (BCE) e dal mercato. Ma la Germania ha affossato il piano, preferendo accumulare avanzi sempre più ampi delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. Ciò si è accompagnato a crescenti flussi di capitali in uscita dalla Germania, attraverso la realizzazione di rilevanti investimenti diretti esteri. Si pensi al caso dell’acquisizione dell’americana Monsanto da parte della Bayer per circa 60 miliardi di dollari.

A livello aggregato, i risparmi tedeschi superano gli investimenti di quasi 400 miliardi di euro. Pertanto un equilibrio tra risparmi e investimenti e delle partite correnti della bilancia dei pagamenti comporterebbe un aumento degli investimenti di quasi 400 miliardi di euro, elevando il rapporto decisamente basso tra investimenti e PIL. Ai tempi della riunificazione delle due Germanie gli investimenti tedeschi superavano il 25% del PIL e oggi invece sono inferiori al 20%.

La Germania è di gran lunga il primo partner commerciale dell'Italia. Nel 2017 l'interscambio bilaterale ha raggiunto circa 121 miliardi di euro, una cifra quasi pari alla somma degli interscambi dell'Italia con Francia e Regno Unito insieme. I rapporti sono intensissimi anche nel campo degli investimenti e delle integrazioni e collaborazioni industriali. Si stima che le imprese tedesche partecipate o controllate dall'Italia siano circa 2.100 e 1.800 le aziende in Italia a capitale tedesco. L’Italia risulta pertanto legata sul piano economico a filo doppio con la Germania e i destini dei due Paesi difficilmente si possono separare. La speranza è che i rapporti possano ritornare ad ispirarsi ai valori che hanno caratterizzato la nascita dei Trattati di Roma più di 60 anni fa, ad opera di grandi statisti cristiani come Adenauer, De Gasperi e Schuman.

Comitato Tecnico Scientifico dell'Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti (UCID)

Roma, dicembre 2018