Schede CTS

Creazione di valore e fattori di produzione

Creazione di valore e fattori di produzione

La grande crisi che abbiamo vissuto negli ultimi dieci anni e dai cui a stento stiamo uscendo con molte incognite davanti a noi, rende necessaria una riflessione sulla creazione di valore e sui fattori della produzione.

Di fronte ai fenomeni di finanziarizzazione e della finanza come “cervello dell’economia” che stanno alla base della crisi, dobbiamo tornare ai fondamenti dell’economia e cioè alle teorie del valore. Ce lo suggerisce Papa Francesco che nella Evangelii guadium dice no ad un denaro che governa invece di servire.

Due sono le teorie fondamentali del valore che ci indica la scienza economica: la teoria del valore lavoro e la teoria marginalista. La prima afferma che il valore dipende, direttamente o indirettamente, dal lavoro incorporato nei beni e servizi e che quindi tutto il valore creato deve andare ai lavoratori. Poichè ciò non avviene perchè il lavoratore lavora un numero superiore di ore necessarie per il salario di sussistenza, la differenza va al capitalista come plusvalore che rappresenta lo sfruttamento del capitale sul lavoro. La teoria marginalista afferma invece che nel rapporto di produzione non c’è sfruttamento perché il lavoratore riceve il salario che corrisponde esattamente al suo contributo alla produzione. In termini precisi, il salario reale è uguale alla produttività marginale del lavoro. Inoltre, il profitto del capitalista corrisponde alla produttività marginale del capitale. La distribuzione della ricchezza creata tra i due fattori della produzione, lavoro e capitale, è pertanto equa perché ognuno dei fattori riceve in base al suo contributo alla produzione, misurato dalla produttività marginale.

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Il superamento di questa impostazione si ha con il contributo del 2011 di Porter e Kramer che parlano di creazione di valore condiviso da tutti i portatori di interesse interni ed esterni (stakeholder) dell’impresa: dipendenti, comunità locali, istituzioni locali, clienti, fornitori, ambiente, azionisti. Esso corrisponde nella sostanza al concetto di bene comune elaborato dall’UCID attraverso il modello delle Strategie di impresa per il bene comune (SIBC). I fattori della produzione non sono in lotta per spartirsi la torta, ma cooperano ai fini della distribuzione del reddito creato con il contributo di tutti. E’ in fondo quello che sosteneva Leone XIII nella Rerum novarum del 1891, rifiutando la lotta tra capitale e lavoro ed esortando ad una cooperazione tra i due fattori della produzione per lo sviluppo e la costruzione del bene comune. L’enciclica esortava alla partecipazione d’impresa per il superamento del conflitto tra capitale e lavoro. Si tratta della partecipazione agli utili da parte dei dipendenti, dell’azionariato operaio, della partecipazione dei dipendenti agli organi decisionali dell’impresa.

Un punto fermo della teoria del valore è che da esso dipende la formazione dei prezzi. Sono i prezzi che dipendono dal valore e non viceversa. Solo in questo modo si ha creazione di valore da distribuire e non estrazione di valore. L’estrazione di valore si ha quando la ricchezza dipende dalla speculazione in borsa e, in generale, dalle operazioni dell’industria finanziaria e cioè dalla variazione dei prezzi degli strumenti finanziari (azioni, obbligazioni, altri strumenti più o meno rischiosi). In questo modo il valore dipende dai prezzi e il sistema consente che minoranze sempre più strette si arricchiscano sempre di più e maggioranze sempre più larghe si impoveriscano sempre di più. Purtroppo questa finanziarizzazione, con un’inversione dei ruoli tra valore e prezzi, si è trasferita anche al settore reale dell’economia per cui il sano profitto, strumento fondamentale dell’accumulazione e dello sviluppo nel lungo periodo, scema rispetto ai guadagni che si realizzano con la finanza. Pensiamo ad esempio al settore automobilistico che guadagna di più dalla vendita a rate delle automobili a tassi di interesse che arrivano all’8% (funzione finanziaria), rispetto al valore vero e proprio delle automobili (funzione reale).

Per completare questa analisi, è necessaria approfondire la questione riguardante i fattori della produzione, da cui dipende la creazione di valore. Nella storia del pensiero e dell’analisi economica il numero dei fattori della produzione è andato modificandosi. Gli economisti classici, Smith, Ricardo e Marx, parlano di tre fattori della produzione: terra, lavoro e capitale. Le loro remunerazioni categoriche sono rappresentate dalla rendita, dal salario e dal profitto.

Le figure dell’imprenditore e dello Stato come fattori della produzione appaiono dopo con Schumpeter, Keynes e altri economisti, anche se la definizione rigorosa di imprenditore era già apparsa molto prima con Cantillon (1680-1734) che acutamente definisce l’imprenditore come “il vero organizzatore di tutto ciò che si produce, colui che compra a prezzo fisso, paga salari fissi, sostiene spese fisse e vende a prezzi incerti; a differenza dei salariati non ha reddito fisso, ma vive nell’incertezza”.

La figura dell’imprenditore come fattore fondamentale della produzione appare in grande evidenza in Schumpeter. Si tratta dell’imprenditore innovatore da cui dipende il processo di sviluppo, assieme alle piccole e medie imprese operanti in un contesto concorrenziale e alle banche che creano credito per la trasformazione delle innovazioni in prodotti e servizi per il mercato.

Lo funzione dello Stato come creatore di valore emerge soprattutto con Keynes che, di fronte alla grave crisi del 1929 con distruzione di ricchezza e gravissima disoccupazione, auspica l’organizzazione di investimenti pubblici da parte dello Stato per risollevare la domanda, il reddito e l’occupazione. La funzione dell’imprenditore cade in ombra perché la crisi aveva fatto precipitare la produttività marginale degli investimenti su livelli così bassi che nessun valore minimo del tasso di interesse sarebbe stato in grado per via endogena di risollevare l’economia. Il sistema era caduto nella famosa trappola della liquidità per cui i tassi di interesse erano così bassi che ci si poteva attendere solo un loro rialzo e quindi una perdita in conto capitale sui titoli. In questa situazione nessuno investiva in titoli e tutti preferivano rimanere liquidi impedendo il processo di finanziamento dell’accumulazione e dello sviluppo. La politica monetaria era totalmente inefficace e solo la politica della spesa in investimenti pubblici da parte dello Stato poteva rimettere in moto il sistema economico. D’altra parte, allora la spesa pubblica sul reddito nazionale incideva così poco che non ci sarebbe stato pericolo di inflazione. Anzi il sistema era affetto da una tremenda deflazione che, come affermava Fisher in una famoso articolo del 1933, appesantiva sempre di più il debito e frenava la domanda di consumi e di investimenti.

E’ bene sottolineare che Keynes in questa sua visione del ruolo dello Stato come creatore di valore attraverso gli investimenti pubblici pensava che era in ogni caso importante rispettare il principio di sussidiarietà. Come si legge infatti nella sua monografia del 1926, “La fine del laissez-faire, Keynes” riteneva che “La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno già, e farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto”.

Il principio della sussidiarietà verrà sostenuto con forza da Pio XI nell’Enciclica sociale “Quadragesimo anno” del 1931.

Siamo quindi a cinque fattori della produzione: terra, lavoro, capitale, imprenditorialità, Stato. Tra questi fattori della produzione esistono naturalmente della relazioni per cui un fattore può essere assorbito nell’altro, come nel caso dello Stato imprenditore. Si ritiene che l’impiego ottimale di questi cinque fattori della produzione consenta di creare sviluppo per la costruzione del bene comune.

Ma la Dottrina Sociale della Chiesa ci insegna che non solo a questi cinque fattori della produzione spetta la creazione dello sviluppo per il bene comune, ma a tutti i soggetti che operano nella società civile secondo principi di solidarietà e di sussidiarietà. Si tratta della famiglia, della scuola, dell’università, degli enti intermedi e così via che sono il terzo grande pilastro dello sviluppo per il bene comune come sosteneva Giovanni Paolo II, grande Maestro di Dottrina Sociale della Chiesa. Si tratta del pilastro della comunità civile.

Lo Stato rappresenta per eccellenza il fattore della produzione che opera secondo principi di solidarietà, affinchè la ricchezza venga distribuita in modo da raggiungere l’obiettivo dell’equità e della giustizia. Gli strumenti sono quelli della spesa pubblica e della tassazione. L’impresa invece è per eccellenza il fattore della produzione che opera secondo principi di sussidiarietà ma anche di solidarietà, perché non è bene che faccia lo Stato quello che può fare benissimo l’impresa. Possiamo dire che la produzione di ricchezza da parte dell’impresa obbedisce prevalentemente a principi di sussidiarietà, mentre la distribuzione deve tenere conto dei valori della solidarietà. E ciò perché, come affermava il nostro economista aziendale Pietro Onida, la ricchezza si accresce non difendendola ma diffondendola.

Questi due grandi principi della Dottrina Sociale della Chiesa, solidarietà e sussidiarietà, devono essere coniugati insieme per la creazione di vero sviluppo per il bene comune. E ciò perché la solidarietà senza la sussidiarietà crea burocratismo, mortificazione della creatività, appiattimento e annullamento della propensione allo sviluppo. Ma anche la sussidiarietà senza la solidarietà è altrettanto negativa perché in essa prevale l’egoismo localistico, il disinteresse per il prossimo e la mancanza di amore per il bene comune. Sono in definitiva due valori che devono essere coniugati in equilibrio per lo sviluppo e la costruzione del bene comune, il grande principio della Dottrina Sociale della Chiesa.

Comitato Tecnico Scientifico dell'Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti (UCID)

Roma, 15 aprile 2019