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L'imprenditore e il manager: due figure a confronto

 L'imprenditore e il manager: due figure a confronto

Sono state individuate diverse cause che hanno portato alla grave crisi iniziata nel 2008 e da cui non siamo ancora completamente usciti Di una però si è parlato poco o nulla: il venir meno del ruolo fondamentale dell’imprenditore nei processi di sviluppo e la crescita del peso dei manager.

L’imprenditore e il manager sono due figure diverse e si sono divaricate soprattutto nell’ultima crisi.

L’imprenditore e il manager possono anche essere la stessa persona, come avviene normalmente nelle imprese di piccole dimensioni in cui proprietà e controllo coincidono. Di solito, non è così invece nelle imprese di grandi e di medie dimensioni in cui vi è separazione tra proprietà e controllo e tra imprenditore e manager.

L’imprenditore è un generalista, dotato di una visione della sostenibilità dell’impresa di lungo periodo. Per l’imprenditore il profitto non è l’unico obiettivo dell’impresa, mostrando responsabilità anche nei confronti degli altri portatori di interessi, a partire dai dipendenti che costituiscono la risorsa più preziosa dell’azienda in un’ottica di lungo periodo. Per l’imprenditore, il profitto più che un obiettivo è una condizione per assicurare l’accumulazione, l’innovazione e lo sviluppo dell’impresa in una visione lunga.

Il manager è invece spesso uno specialista che mira a massimizzare il profitto nel breve e nel brevissimo periodo, ad esclusivo vantaggio degli azionisti e suo personale attraverso vari meccanismi, come ad esempio quello delle stock option. Il manager si può reperire abbastanza facilmente sul mercato, ora globalizzato. Non così avviene invece per gli imprenditori che sono frutto della cultura, della storia e dell’identità di un determinato Paese.

L’imprenditore generalista è per definizione un “homo faber”, cioè un continuatore dell’opera creatrice di Dio (Genesi), mentre il manager è uno specialista, cioè un “homo fabricatus” nelle Scuole di Direzione Aziendale delle università di tutto il mondo. Tutto questo ha interessato soprattutto l’industria finanziaria che è in mano a manager “fabbricati” e non a veri imprenditori.

Possiamo pertanto interpretare la crisi attuale come effetto della crescente carenza di veri imprenditori illuminati.

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E’ opportuno ora chiederci chi ha definito per primo in modo preciso, sul piano economico, la figura e la funzione dell’imprenditore nei processi di sviluppo. Ci viene per questo in aiuto una bellissima recensione di Luigi Einaudi del 1955 del saggio di Richard Cantillon sulla natura del commercio in generale, pubblicato in prima edizione nel 1755. Einaudi celebra pertanto i duecento anni dall’uscita del saggio di Cantillon, precisando che la prima traduzione italiana è stata pubblicata a Venezia nel 1767.

Nella sua recensione, Einaudi mette in evidenza che è stato l’economista inglese S. Jevons a scoprire nel 1881 la grandezza di Cantillon, arrivando a definirlo fondatore della scienza economica. Quindi non A. Smith con l’Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776), come si dice comunemente, ma R. Cantillon.

Einaudi precisa che le prime notizie raccolte faticosamente da Jevons su Cantillon, vengono arricchite notevolmente nell’Introduzione al saggio di Cantillon nella versione tedesca, curata da F.A. Hayek del 1931. L’Introduzione di Hayek, scrive Einaudi, rappresenta il migliore strumento per la conoscenza della vita e del pensiero di Cantillon, di origine spagnola soltanto nel nome perché per secoli la famiglia ha abitato in Irlanda. Alcuni membri della famiglia erano emigrati alla fine del seicento in Francia e qui avevano iniziato proficui rapporti di banca e di commercio giovandosi delle buone relazioni familiari e politiche con gli emigrati inglesi. Dopo la caduta del banchiere Law, R. Cantillon, pur fissando la dimora a Londra, si sposta di continuo per affari fra Parigi, Abbeville, Rotterdam, Bruxelles, Colonia, Verona, Genova, Utrecht. Nel 1734 è di nuovo a Londra dove viene ucciso da un servitore licenziato.

E veniamo al motivo fondamentale per cui abbiamo dedicato tanto spazio a R. Cantillon (1680-1734). E’ stato il primo a dare una definizione rigosa dal punto di vista economico della natura e della funzione dell’imprenditore nei processi di sviluppo. Ecco la sua definizione: “L’imprenditore è il vero organizzatore di tutto ciò che si produce, colui che compra a prezzo fisso, paga salari fissi, sostiene spese fisse e vende a prezzi incerti; a differenza dei salariati non ha reddito fisso, ma vive nell’incertezza”.

Per Cantillon il capitale in sé è cosa morta perché “La circolazione e lo scambio delle derrate e delle mercanzie, come pure la loro produzione, avvengono in Europa ad opera degli imprenditori e a loro rischio” (p.34). Interessante è il commento di Einaudi: “Tanti anni prima che gli economisti classici inglesi, Adamo Smith e Davide Ricardo, commettessero l’errore terminologico di dare all’organizzatore della produzione e dello scambio il nome di “capitalista”, quasichè il mezzo materiale accidentale dominasse sul serio la scena economica, tanti anni prima che Gian Battista Say tentasse invano di correggere, mettendo in onore la figura dell’imprenditore, la terminologia classica, Cantillon aveva visto che il vero organizzatore di tutto ciò che si produce, non sono i personaggi detti proprietari, capitalisti, lavoratori, tutti benemeriti nel loro mestiere, quando lo sappiano fare; l’iniziatore, il creatore, il responsabile è l’imprenditore”. E prosegue: gli imprenditori “comprano a prezzo fisso, pagano salari fissi, sostengono spese fisse e vendono a prezzo incerto. Corrono il rischio di perdere e l’alea di guadagnare; mettono in moto la macchina economica e la fanno agire”.

La figura dell’imprenditore nel significato di Cantillon nasce con le rivoluzioni industriali, come vero attore dello sviluppo. Si tratta dell’imprenditore innovatore di cui parlerà J. Schumpeter nella Teoria dello sviluppo economico del 1911. Un concetto di innovazione molto ampio: non solo di processo e di prodotto, ma anche della ricerca di nuovi mercati, di nuovi modelli organizzativi delle imprese, di nuovi metodi di trasporto, di nuovi metodi di comunicazione e così via. In questa visione, il progresso scientifico e tecnico è il motore dello sviluppo economico. Il progresso tecnico accresce la produttività e questa a sua volta determina in gran parte l’aumento del reddito pro capite e in misura minore, ma crescente, la riduzione della durata del tempo di lavoro. L’artefice di tutto questo è l’imprenditore, da non confondersi, come precisa con forza Cantillon, con il capitalista. Altrimenti si cade nell’errore di Marx che identifica l’imprenditore con il capitalista. Ce lo spiega molto bene Schumpeter nella Teoria dello sviluppo economico del 1911 quando ci dice che il terzo pilastro dello sviluppo economico sono le banche che creano credito per consentire alle innovazioni di trasformarsi in prodotti e servizi per il mercato.

Possiamo pertanto dire che la figura dell’imprenditore non esisteva prima delle rivoluzioni industriali. Per la verità, la si vede un po’ prima durante il Rinascimento con la figura del mercate banchiere, soprattutto a Firenze, a Siena, a Venezia e in altre città mercantili. Esisteva invece, fin dai tempi più antichi, la figura del manager che agiva e amministrava che agiva per conto del sovrano, del re, dell’imperatore o del faraone. Si trattava prevalentemente di società di tipo teocratico, molto centralizzate, con un ruolo fondamentale degli schiavi come forza lavoro e per la realizzazione delle grandi opere che ancora oggi possiamo ammirare. I funzionari pubblici, ma in parte anche i sacerdoti, svolgevano le funzioni di veri e propri manager, in società di tipo piramidale e a decisioni fortemente centralizzate. Si può, in definitiva, affermare che storicamente i manager sono nati prima degli imprenditori.

Accenniamo infine ad alcuni importanti contributi di Cantillon presenti nel “Saggio sulla natura del commercio in generale”(1755).

Il primo importante contributo di Cantillon riguarda le forme di mercato e, in particolare, il monopolio rispetto alla concorrenza. Nel monopolio l’unico produttore applica il prezzo che ritiene più opportuno e lascia che la domanda vi si adegui. Il prezzo supera sempre il costo di produzione, assicurando profitti anche nel lungo periodo. Nel mercato concorrenziale, invece, solo nel breve periodo il prezzo può superare il costo di produzione assicurando profitti, mentre nel lungo essi tendono a coincidere. Cantillon porta l’esempio delle miniere e afferma che moltiplicandosi le miniere, il prezzo tende ad adeguarsi a quel “che costa per la sua produzione” (p. 63).

Il secondo contributo riguarda la critica alla teoria quantitativa della moneta che si basa sulla costanza della velocità di circolazione del denaro.. Secondo Cantillon la velocità di circolazione della moneta non è costante ma variabile, anticipando il contributo di Wicksell e successivamente di Keynes. “Una accelerazione o una maggiore velocità della circolazione del denaro negli scambi, afferma Cantillon, equivale, in una certa misura, ad un aumento del denaro effettivo”. I prezzi possono pertanto aumentare anche in presenza di una quantità immutata di moneta.

Nella Dottrina Sociale della Chiesa si parla del ruolo fondamentale dell’imprenditore come attore dello sviluppo per la costruzione del bene comune. Ciò avviene in modo particolare nelle Encicliche sociali di Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI e nella Esortazione apostolica di Papa Francesco, Evangelii gaudium. E’ utile, a questo riguardo, confrontare le tre Encicliche sociali di Giovanni Paolo II con la Caritas in veritate di Benedetto XVI. Mai come nella Caritas in veritate erano state citate così tante volte le categorie di imprenditore, imprenditorialità, impresa e azienda, nemmeno nella Centesimus annus di Giovanni Paolo II che ha segnato una svolta nella Dottrina Sociale della Chiesa, conferendo un ruolo strategico all’economia d’impresa come fattore di sviluppo per la costruzione del bene comune.

Papa Francesco fornisce nella Evangelii gaudium una definizione molto interessante della vocazione dell’imprenditore, alla luce dei grandi principi della Dottrina Sociale della Chiesa. Ecco le sue parole: “quello dell’imprenditore è un nobile lavoro, sempre che si lasci interrogare da un significato più ampio della vita; questo gli permette di servire veramente il bene comune, con il suo sforzo di moltiplicare e rendere più accessibili per tutti i beni di questo mondo”. Quindi la missione della produzione della ricchezza moltiplicando i talenti ricevuti e quella della sua distribuzione secondo principi di equità e giustizia. Troviamo riassunti in questa definizione i valori fondanti della Dottrina Sociale della Chiesa: sviluppo, solidarietà, sussidiarietà, destinazione universale dei beni, bene comune.

CTS

Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti (UCID)

Roma, 21 maggio 2018